Potremmo dire che la forza di una storia è determinata dalla sua capacità di farci ricontestualizzare, ridefinire e dunque ricodificare tutte le altre storie che conosciamo. Opere d’arte, esperienze di vita, rivoluzioni culturali assumono tutte, una volta depositate nella coscienza, la forma di storie che hanno il potere di modificare la nostra comprensione di questo o quell’aspetto della realtà. Per restare nell’universo di Star Wars e chiarire con un esempio, nella testa di chi è cresciuto con la Trilogia Originale l’avvento della Trilogia Prequel ha scatenato una serie di terremoti della portata di grandi eventi geologici, costringendoci a mettere in discussione ciò che sapevamo della saga, a reinterpretare ogni suo aspetto, ad aggiungere nuove, più profonde dimensioni al nostro concetto di Star Wars, insomma a trovare nuove risposte alle domande “che cos’è Star Wars e di che cosa parla?”. Ebbene, a conti fatti, qual è l’impatto della storia raccontata dalla serie Obi-Wan Kenobi? E quali erano le ambizioni dei suoi autori?
Costruita sulla classica struttura in tre atti (due episodi per atto), nel suo sesto e migliore episodio Obi-Wan Kenobi risolve il viaggio del suo riluttante eroe e ce lo riconsegna trasformato. Ma è una trasformazione che, per lo spettatore, non è altro che l’inevitabile riconferma dello status quo di Una nuova speranza: Ben Kenobi è il misterioso ma tutto sommato amichevole eremita che vive nel deserto, di cui Luke Skywalker ha un vago ancorché positivo ricordo. Stretta com’è tra La vendetta dei Sith e Una nuova speranza, Obi-Wan Kenobi non può ambire a raccontare una storia rivoluzionaria che ridefinisca i termini della saga (l’avrebbero potuto fare i Sequel!, se non fossero stati sprecati), né a mettere in scena eventi davvero sorprendenti, poiché niente di ciò che già esiste può essere contraddetto. L’obiettivo di “Obi-Wan Kenobi_, dunque, non può che essere quello di esplorare la psiche dei suoi due personaggi principali, il protagonista eponimo e il suo antagonista, Anakin Skywalker/Darth Vader, e di rivelare all’appassionato di Star Wars la natura della trasformazione interiore vissuta dai due in questo interludio tra le due Trilogie.
Ma attenzione: si tratta di trasformazione? Ci torneremo più avanti.
Lungo il percorso, il grande affresco della saga è ravvivato qui e là da qualche buona pennellata: la reinterpretazione di Owen e Beru, gli Organa e le brevi scene ambientate su Alderaan, il concetto del Path (o Cammino) e il racconto di una ribellione ai primordi che cerca attivamente di salvare i Jedi, speranza della galassia. In qualche occasione, le aggiunte all’affresco trovano anche una certa forza espressiva grazie ad alcune scelte riuscite: l’utilizzo dei flashback - in particolare i Jedi Trials su Coruscant, di cui abbiamo già scritto -, la parabola narrativa di Reva, l’assedio alla base ribelle su Jabiim, un terrificante Darth Vader in piena ascesa verso il culmine dei suoi poteri di Sith e, sopra ogni cosa, la messa in scena dello sguardo di Vader, lo scorcio sui suoi ricordi, sulla sua psiche, inedita sullo schermo e con ogni probabilità ispirata alla bella serie a fumetti di Kieron Gillen. E naturalmente Leia, asso nella manica e obiettivo secondario di questa serie, peraltro perfettamente centrato: l’obiettivo di riempire un altro intrigante angolo del grande affresco, raccontandoci chi fosse Leia prima di diventare Leia (spoiler: è sempre stata Leia), e anche in questo caso provando a prendersi quanto più spazio possibile nel dipinto, ma senza guastare niente. Infatti, gli sceneggiatori della nuova Lucasfilm ci hanno ormai abituati a questo loro approccio, tanto più allusivo e cauto quanto più centrali alla saga sono i personaggi in scena (valgano per tutti i lunghi, ineffabili sguardi di Ahsoka nelle sue più recenti apparizioni): da un lato, finché non c’è conclamata contraddizione si può spingere e provare a espandere e a offrire qualcosa di “nuovo”, dall’altro, anche se non c’è contraddizione non si può dire troppo, perché la porta va sempre lasciata aperta per la prossima possibile visita alla galassia lontana lontana, che andrà esplorata piano, molto piano.
Ma veniamo al dunque. Al centro di questo nuovo capitolo della saga vi sono, ancora una volta, Anakin e Obi-Wan. Tutto quel che questa serie aveva di importante da dire, lo dice nel secondo intensissimo duello tra il Maestro e il suo Padawan.
“You have failed, Master”. È Anakin che parla? È Darth Vader? Qual è la differenza? La differenza è tutta nell’identità del Maestro: a fine episodio, infatti, si rivolgerà a Palpatine chiamandolo Maestro. Anakin dunque “riemerge” per parlare, probabilmente per l’ultima volta, con il suo Maestro Obi-Wan. È un momento liminare: Anakin e Darth Vader esistono insieme, grazie alla trovata, bellissima, del casco danneggiato che mostra entrambi i volti e rende compresenti le voci delle due identità. Anakin deve “esserci” un’ultima volta per reclamare orgogliosamente la propria autodeterminazione (“You didn’t kill Anakin Skywalker. I did”) e per annunciare il fallimento del Maestro direttamente al suo cospetto, nel momento cruciale del confronto: “You have failed, Master”. Colmo di un odio incommensurabile, sembra ambiguamente dire: “Non sei riuscito a uccidermi e neanche a salvarmi. Hai fallito in tutto”. Lo spettatore, e Obi-Wan, suo alter ego sullo schermo, conoscono una storia diversa: Star Wars è la tragedia del fallimento di Anakin, Padawan dal destino sfortunato e terribile che non ha potuto fare altro che tradire le aspettative del suo Maestro e di se stesso.
Ma Darth Vader ha disperatamente bisogno di affermare inequivocabilmente la natura autonoma della propria esistenza, e ha dunque bisogno di una nuova storia: “I am not your failure, Obi-Wan”, dice Darth Vader - e non lo chiama più Maestro. Sta dicendo: “Io sono il creatore di me stesso”. Darth Vader esiste per sua scelta. I ricordi e i sentimenti residui di Anakin non possono essere cancellati, e devono quindi essere sistematicamente repressi e riscritti. Di fronte alla disperazione di un Anakin sconfitto, ancora una volta, confuso, sfigurato, mutilato, fallito e infelice è impossibile non commuoversi.
“Anakin is gone. I am what remains”. Affermazione di trionfo o pianto disperato? Darth Vader deve dunque “esserci” affinché Anakin possa finalmente morire - di nuovo e stavolta per sempre (quasi). Infatti, Anakin può morire solo se Obi-Wan è davvero testimone della sua morte: dal punto di vista di Obi-Wan, perché la serie si era aperta con la scoperta che Anakin è ancora vivo; dal punto di vista dell’orgoglioso Anakin, perché morire per propria mano è l’unica morte accettabile. “I’m sorry. I’m sorry, Anakin. For all of it”, dice Obi-Wan commosso (e noi con lui), esprimendo ciò che per dieci anni ha desiderato dirgli… ma Anakin non c’è più. “Then my friend is truly dead”.
È uno strano viaggio, questo di Obi-Wan: smette di nascondersi, ritrova il coraggio e affronta il suo demone - l’aver fallito nel salvare il suo Padawan, fratello, migliore amico e figlio. Quando si incammina verso il suo eremo, Qui-Gon finalmente gli si manifesta, confermando che qualcosa è cambiato, che Obi-Wan ha ritrovato la Forza e se stesso. E tuttavia questa trasformazione gli riesce solo grazie al suo più grande alleato, il suo Padawan, che torna in vita un’ultima volta per liberarlo, mostrandogli che il destino di Anakin è più complesso del suo semplice fallimento come Maestro: “I am not your failure, Obi-Wan. You didn’t kill Anakin Skywalker. I did”.
Nella sospensione eternamente ambigua di questa scena ci sono tutta l’intensità tragica e la bellezza di Star Wars.
A conti fatti, al netto di sei episodi di Obi-Wan Kenobi non è successo niente. Narrativamente, la saga resta immobile. Tuttavia, al netto delle emozioni e dei nuovi attimi spesi con i suoi personaggi più belli viene da dire: “Eppur si muove”.
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